UN COMMENTO DI STEFANO GUGLIELMIN

un commento di Stefano Guglielmin, QUI

di Mannì Romeo

Quelle che Nicola Cavallaro ci presenta come incisioni sono degli istanti in grado di raccontarci l’intero processo creativo. È come se l’artista, ispirandosi all’automatismo psichico del surrealismo e alla process art – che rifiutava ogni rigida struttura geometrica e riqualificava l’importanza del gesto –, avesse deciso di presentarci il risultato di questo processo, lasciandoci la curiosità di capire come l’inchiostro abbia deciso di accanirsi proprio su una zona o ne abbia evitate delle altre, come siano nati certi paesaggi, certe figure, certe espressioni grottesche. Con la tecnica della puntasecca riesce a creare dei solchi diretti che aggrediscono il metallo, e altri più sfumati, grazie alle barbe che trattengono l’inchiostro e ammorbidiscono il segno. Questi segni ci invitano a guardare oltre la superficie: linee nere, più o meno sottili, scavano la lastra e scovano una natura sensuale e sessuale presente per lo più nella nostra immaginazione. L’artista sceglie di portare la realtà alle estreme conseguenze, senza preoccuparsi di un risultato estetico in sé compiuto, per raccontare un mondo, il nostro, fatto di figure esili che si nascondono e fanno fatica ad emergere. Alcune figure non ce la fanno e rimangono immerse in un caos materico, altre si mostrano ma ci lasciano il dubbio se siano davvero delle figure o semplici solchi sulla materia. Credo non si possa fare a meno di associare l’immagine alla poesia di fianco e usarla come traccia per capire il senso delle incisioni. Così, mentre leggiamo i versi, con la coda dell’occhio vediamo animarsi le figure che partecipano alla lettura piegandosi al contenuto del testo e spiegandone il significato. Il senso, però, rimane sempre ambiguo: tutto ci sfugge e non siamo in grado di dire con sicurezza quale sia l’appesa nella seconda incisione o se dentro la bara ci sia davvero un uomo che con la sua espressione deride la nostra condizione, condizione a cui lui, finalmente, non partecipa più. Incisioni e poesie nascono in momenti diversi e la loro associazione sembra riprendere la tecnica del cadavre exquis, tecnica che permetteva di raggiungere un risultato inaspettato e corale grazie alla collaborazione di diversi artisti che davano voce al loro inconscio. Allo stesso modo le incisioni sono state affiancate da poesie, create a posteriori, attraverso la liberazione della potenzialità immaginativa: le associazioni sono libere e non hanno la pretesa di essere condivise unanimemente. È un libro d’arte e di poesia, un’unione che è vitale per le due espressioni artistiche: sopravvivono da sole ma quando sono insieme si completano a vicenda. La poesia si trasforma in immagine nella nostra mente e l’immagine si trasforma in parole che ne spiegano il senso. In questo modo si mescolano due mondi diversi, il mondo reale delle poesie di Luca Rizzatello e il mondo surreale delle incisioni di Nicola Cavallaro. Questa unione ha un senso solo nella nostra immaginazione e solo se lo vogliamo, se rimaniamo nella sfera della logica le immagini sono pure astrazioni di colore nero, se cerchiamo di andar al di là allora queste astrazioni si trasformano nella mistica isterica, nel nano o nella monaca con la vestaglia macchiata di sugo. Del resto le immagini hanno sempre avuto il potere di dire altro rispetto a quello che vediamo, di farci sprofondare in altre realtà, di lasciare aperta qualsiasi possibilità.

Mannì Romeo è nata a Reggio Calabria nel 1987. Si è laureata a Padova alla Facoltà di Lettere e Filosofia in Storia e Tutela dei Beni Culturali con una tesi sul tema delle metamorfosi di Ovidio nelle ville venete del Cinquecento. Sta concludendo una laurea magistrale in Storia dell’Arte nel medesimo ateneo. Le sue ultime ricerche si sono spostate verso il mondo contemporaneo; attualmente sta lavorando allo studio di manufatti artistici realizzati con materiali industriali, con un’attenzione particolare rivolta verso Bertozzi & Casoni.

di Giusi Montali

Mano morta con dita è una raccolta di undici poesie di undici versi di endecasillabi. Ciascuna delle poesie è priva di punteggiatura fatta eccezione per il punto finale che conclude ogni componimento, come dire: sequenza terminata, si passa ad altro. E poi quella bambina che odia la matematica ma ama l’esattezza del calcolo ti spinge ad afferrare una calcolatrice e digitare 11 sillabe per 11 versi per 11 poesie, e ammirarne il risultato: 1331, un bellissimo numero palindromo. Rileggi di nuovo Mano morta con dita e questa volta noti la struttura sintattica, le rime interne, le allitterazioni, l’iterazione del relativo che struttura la poesia stessa dandole un andamento percussivo. E poi ti arrendi dinnanzi a questo abile gioco verbale: queste poesie sono degli ordigni, dei congegni precisi che sfidano il lettore. Enigmi da risolvere celati all’interno di schemi metrici ben precisi che celano gli indizi per la risoluzione del giallo poetico. Così con ironia Luca Rizzatello rinnova le forme metriche più consolidate della tradizione italiana (il sonetto, l’endecasillabo e il verso martelliano), innestandoli su parole scientifiche, precise, esatte (psoriasi, stricnina, endorfine, cloroformio). E ci dice: – Caro lettore, il poetese è finito, non c’è lingua che sia estranea alla poesia, eccoti il mio plurilinguismo -, e le poesie si disseminano di parole inglesi (miss massachusetts, punch party, part time, wrestling, playstation, undertaker, spanking, videopoker). L’impressione è quella di una raccolta che rimanda ad altre realtà, aprendo una sequela infinita di altri mondi: una vertigine di realtà virtuali tutte possibili e labirintiche, prive di un percorso definito e univoco. E una di queste vertigini è percepibile chiaramente nel settimo sonetto che riporto per intero:

Quando passa nella mente (del nano)
il rumore che lo impietrisce tutto
tutti ritagliano i fiori di carta
per i premi più bassi nella pesca
di beneficenza è un rumore come
di rasoio elettrico in quanto ormai
la barba si ingrigisce tutta ma
diminuisce ma cresce il rumore
che forse sarebbe meglio bruciarla
che raderla al suolo come gli spastici
al termine di quel test antisismico.

Nella quale si possono individuare quattro piani di realtà:
1) ciò che succede nella mente del nano;
2) ciò che succede nel mondo esterno (o è il mondo interno del nano?);
3) la descrizione del mondo che attraversa la mente del nano e che ha per emblema il rumore ronzante e fastidioso del rasoio elettrico;
4) la realtà del test antisismico.

Nel decimo sonetto invece si ha un rimando al mondo invadente dei reality che tenta di plasmare la dimensione della quotidianità (“Se c’ha la nomina la colpa è solo/ sua per questo a casa stanno adottando/ la politica del silenzio stampa”) e che critica apertamente la realtà evanescente e mediatica nella quale l’uomo del XXI secolo vive. A fine lettura ti viene il sospetto che qualche tessera del puzzle sia stata sottratta, che il quadro non sia completo non per una qualche tua mancanza (o non solo) e richiudi il libro con una domanda: quale o quali indizi mancano per poter risolvere l’enigma? È tutto lì davanti a te, sotto i tuoi occhi, ma qualcosa non torna. O meglio, non riesci a trovare l’incastro perfetto, la combinazione giusta. Come quando tenti di risolvere il cubo di Rubik. E ricominci a leggere con la matita in una mano e cerchi gli indizi celati e ti ritrovi a elaborare innumerevoli ipotesi: la raccolta Mano morta con dita si è trasformata in un gioco combinatorio e in una sfida di intelligenza e riflessione.

Giusi Montali, nata nel 1986, si è laureata in Italianistica con una tesi su Amelia Rosselli (At the 4 pts. of the turning world. Metrica e strutture percettive nel primo tempo della poesia di Amelia Rosselli). Ha pubblicato due articoli estratti dalla tesi sul blog di poesia “Blanc de ta nuque” diretto da Stefano Guglielmin. Sulla rivista “Poetiche” ha pubblicato un articolo sull’imaginazione attiva e sull’I Ching come strategie di composizione poetica nell’opera di Amelia Rosselli. Ha inoltre incominciato un confronto tra alcune poesie di Amelia Rosselli e alcuni scritti di Roberto Bazlen, evidenziandone temi ricorrenti, somiglianze e intertestualità.

Singolare e di grande interesse un elegante volumetto, pubblicato qualche mese fa dalla padovana Valentina editrice (primo numero della serie Prufrock spa) con il titolo un po’ criptico “mano morta con dita” e tutto giocato sul bianco e nero e il trascorrere dei grigi. Un libro che mette insieme un mannello di poesie di Luca Rizzatello e una serie di incisioni a puntasecca di Nicola Cavallaro. Due amici che si sono reincontrati e hanno accostato le loro opere lasciandole interloquire e interagire ricavandone suggestioni e percorsi divergenti che, alla fine, convergono e quasi si sovrappongono. Insomma, non il solito (e banale) libro di poesie illustrato, ma qualcosa che, pur nascendo in momento separati, se non diversi, riesce ad essere un unicum. E i caratteri dei due autori ci sono tutti, giocati con somma e ludica perizia. C’è il gusto di porsi ostacoli e difficoltà da superare. Ecco, allora, undici poesie in endecasillabi, tutti di undici versi e, come se non bastasse, niente punteggiatura come se si trattasse di un unico e complesso periodo. Undici (a non tener conto della copertina) sono anche le incisioni, poste a piatto di fronte alle poesie. E le incisioni sono frutto di una sorta di variazioni e capricci su opere precedenti, ritrovate e rielaborate. Ne consegue una sorta di matericità, che si definisce nello svariare dei grigi e dei bianchi delle incisioni e al tempo stesso nella successione dei versi, che alitano leggeri, ma si incatenano, per così dire, a una prosodia riscattata nell’ironia. Sì perchè, nei versi, di ironia ce n’è molta e sempre all’insegna di una lucidità che si fa sempre più rara. I due autori hanno suggerito, non a torto, che si tratta anche (ma non solo) di un teatrino entro cui si muovono figure e forme, dando vita a più storie che si concatenano ma spingono il lettore continuamente fuori strada, per poi riportarcelo, senza, però, che se ne accorga. Il fatto è che questo libro alla fine va fuori da se stesso e diventa una videoinstallazione, nella quale i versi sono solo voce lenta e monocroma e le incisioni si modificano e si rinnovano fino a ritrovare il sorriso iniziale, come avviene nelle “Variazioni Goldberg” di Bach. La storia gira in tondo e i personaggi, senza mai mutare sembianze, si alternano in un’azione che è solo apparente e forse anche inane. Il libro e la videoinstallazione sono stati presentati, con la complicità di Marco Munaro, in quel luogo magico che è la libreria dell’”Antica Rampa” a Badia Polesine, tra echi e altri rimandi, che hanno aggiunto ulteriori suggestioni e parvenze, frammenti di vita e di cultura che raramente è dato di ritrovare in così gran numero e alta qualità.

(articolo apparso su Il Nuovo Quadrivio, n. 8, settembre 2012)

di Rossano Onano

Quale sia il destino del libro, in quanto manufatto cartaceo, è cosa controversa. Alcuni ne predicono l’estinzione. Secondo altri, nell’epoca volatile e volubile della telecomunicazione il libro resisterà come testimonianza di un sapere prezioso, appunto perché immutabile e statico. Così è avvenuto quando la scrittura è passata dai mattoni di Babilonia alla carta di Pergamo, una pecora per ogni foglio, un libro così prezioso quanto un gregge di cento pecore, un oggetto di lusso. Il libro di Nicola Cavallaro e Luca Rizzatello (Mano morta con dita, Valentina Editrice, 2012) costa meno di cento pecore, appena 15 €, ma è appunto un oggetto prezioso, degno di occupare la biblioteca della futura Pergamo. A Nicola Cavallaro spetta la parte grafica, incisioni a puntasecca su zinco o su rame. Non ho competenza per distinguere fra l’una e l’altra tecnica. Sul segno, sì: a tagli diretti come le ferite di Fontana, senza cromatismo, disposti a comporre figurazioni di aggressivo simbolismo onirico. A Luca Rizzatello spetta il testo. Intanto, si tratta di endecasillabi. Le undici sillabe compongono una stanza di undici versi. Il tutto a corredo di un poema di undici stanze. Lo schema (11x11x11) ha in sé qualcosa di esoterico. Ricordo che, da bambino, avevo una speciale predilezione, istintiva, per il numero 11. Nelle successive letture, fortunatamente afinalistiche, ho appreso che il numero 11 è associato al pianeta Urano e all’età dell’Acquario, undicesimo segno dello zodiaco. Nella simbologia cristiana, 11 è il numero degli apostoli prima della Passione, così assumendo il significato esoterico di un imminente cambiamento. Nella Qabbalah, 11 è il numero maestro, considerato la via della consapevolezza spirituale e della conoscenza ultrasensibile. Ovviamente non credo a faccende di questo tipo, però sono del segno dell’Acquario, e ho accettato la simpatia per il numero 11 come segno di una simpatica coincidenza. Conosco Luca Rizzatello, e posso garantire che il giovanotto è del tutto refrattario alla Qabbalah e all’astrologia. Luca è illuminista ma poeta. Credo che il numero 11 rappresenti per lui il segno dell’ordine estetico, il numero che garantisce il verso maestro, moltiplicato per tre nella composizione di una architettura poematica perfetta. L’endecasillabo di Rizzatello è volutamente aspro, non ama Petrarca, ama Dante. L’architettura complessiva sollecita l’idea dell’ordine. Nello stesso tempo, attraverso la ripetizione ossessiva di un numero primo ovvero intrattabile, e per giunta fornito di scontrosa durezza, l’architettura sollecita l’idea della ribellione. Contemporanea presenza di asservimento geometrico e scontrosità espressiva, ordine e ribellione. La rappresentazione si svolge in un luogo indefinito, cupamente incerto fra le segrete sotterranee di un castello medioevale, oppure stanze inquisitorie oppure, per restare nell’espressione grafica, nelle taverne di Hogarth popolate da gente malata e deforme. Nel sito si muovono: una monaca macchiata di sugo sulla vestaglia; una mistica isterica che ride; miss Massachussets di opaca ma stralunata bellezza; un nano maniacale direttivo però travestito da neonato. Dal costato della mistica isterica, appesa al gancio per forza inquisitoria, sgorga a fiotti liquido di sangue misto a muco. Nella stanza della tortura irrompe la bara, portata a spalla da due becchini part-time, cerimoniosi ed essi pure ossessionati dall’ordine. I quali, infatti, si complimentano con la madre dell’appesa per la delicatezza degli stucchi ornamentali del soffitto. Da lettore, ho un flash mnemonico all’illustrazione terrifica della bara portata dai conigli becchini, nel libro di Pinocchio della mia infanzia. Collodi, ma anche Perrault, ma anche i fratelli Grimm, non erano affatto leggeri quanto a suggestioni funebri. Essendo disponibili le bare, il nano vestito da bambino si improvvisa psicoanalista e procede all’analisi, vigliaccamente appostato alla spalle dell’appesa. Alternativa inquisitoria: l’ordine, oppure la morte. Naturalmente, si svolgono cerimoniali rassicuranti a beneficio dell’appesa: un dessert alle mele cotte; vezzose collane di fiori di carta; il dono di endorfine salutari atte alla tolleranza del dolore. Il tutto esita in un exploit sensoriale, solitario ma condotto coralmente, viscerale e parossistico. Allegoria della masturbazione. La psicoanalisi, quando è condotta dai nani, è una pratica masturbatoria. Irrompe una inserviente, una spolveratrice dalla mano lunga, in realtà mano morta con dita che si affaccenda nell’estrazione dei denti d’oro durante la vestizione dei morti. L’ordine imposto dal nano è morte della generosità affettiva sessualmente eterodiretta (masturbazione), ed è insieme perdita del soggettivo valore personale (estrazione dei denti d’oro). La saga ha esito dubbioso ma in qualche modo felice. La missione aziendale dell’intero apparato consiste nell’imposizione di regole normative, un pignolo rendiconto delle opere e delle omissioni, ma l’esercizio è faticoso, il nano si ritira nello studio per alcune partite rilassanti al videopoker, la monaca macchiata di sugo si distrae. La mistica altrimenti detta l’appesa ne approfitta per falsificare il proprio decesso, e si libera. Per fare poi cosa, non si sa, e sono fatti suoi. Intanto, risolve l’aporia della vita e della morte: la vita (autenticità del sentire, e dell’agire) coincide con la morte (delle regole normative culturalmente imposte). Nicola Cavallaro illustra le stanze tenendo a mente, credo, la lezione cubista e il simbolismo analogico. Il tutto interpretato per sentimento empatico e concettuale spirito di geometria. Come Rizzatello contrappone l’ordine della parola all’apparente ordine normativo, così Cavallaro contrappone l’ordine del segno al caos della realtà materica. Cavallaro è disegnatore pitagorico. Alla quarta stanza, la bara sorretta dai due becchini part-time è resa attraverso un parallelepipedo striato da macchie scure a somiglianza di chiodi oppure macchie di sangue, sospesa fra un fondo infero scuro e un sopra a linee verticali ascendenti. Una bara di legno ad assi chiodati, fra baratro e cielo. Una tavola di stupefacente vortice creativo accompagna l’ultima stanza. La mistica isterica detta l’appesa falsifica il proprio decesso e si libera, nascendo all’autenticità del sentire. La nascita è rappresentata da un campo disteso chiaro con taglio verticale, pancia e vagina. Penso a Campana, Notturno teppista, la vecchia troia supina dalla pancia flaccida. E però, dal segno verticale della vagina erompe l’ovale di una testa chiamata alla vita. Straordinario. Il lavoro di Cavallaro e Rizzatello è in primo luogo un atto d’accusa, sbeffeggiante e cinico, verso l’ordine convenzionale imposto dall’asfittica cultura psicoanalitica. In questo senso, niente di nuovo: psichiatria e psicoanalisi, da sempre, rappresentano la tensione dell’uomo alla libertà (dalle sovrastrutture ideative culturalmente imposte) e, al contrario, la pretesa di assoggettare l’uomo a schemi comportamentali idonei alla convivenza civile. L’aporia è insita nella teoria delle tre istanze di Freud, ove la funzione dell’Io consiste nella mediazione continua fra le funzione dell’Es (istintuali, esplorative) e le funzioni del Super-Io (razionali, conservative). Nel testo di Rizzatello l’analista, vigliaccamente collocato alle spalle dell’imputata, è fortemente sbilanciato verso le forze superegoiche. Ovvero, nega l’autenticità espressiva della mistica isterica. Così, tanto per dire da quale parte stia l’autore. La lettura anti-analitica è puro pretesto che conduce a una più sottile lettura anti-inquisitoria. Contro tutte le inquisizioni. La mistica isterica non è sottoposta a un processo indeterminato ma comunque ontologico, non siamo di fronte al Processo di Kafka. L’inquisizione descritta da Cavallaro e Rizzatello è tanto più invasiva quanto più grossolana. Sotto processo sono i comportamenti della mistica, in nome di una mediocre omologazione agli schemi comportamentali correnti. La ribellione degli autori, ed è questa la novità e la forza del loro lavoro, non consiste affatto nella proclamazione della libertà istintuale, le forze dell’Es non sono scatenate, non è più tempo dei figli dei fiori. Al contrario, la ribellione consiste nella ricerca di un ordine normativo che, in assenza di etica, riesca perlomeno ad essere estetico. Lo schema retorico di Rizzatello, 11 x 11 x 11, e la grafia geometrica di Cavallaro obbediscono all’ordine sidereo dei numeri. Cavallaro e Rizzatello sono poeti pitagorici. La liberazione dall’ordine convenzionalmente imposto non conduce all’anarchia dell’agire. Conduce, al contrario, alla ricerca dell’ordine estetico, attraverso un artigianato verbale e grafico appositamente costruito. La poesia, da sempre, coniuga libertà espressiva e costrizione formale. Prometeo si incatena alla roccia. Per conto suo, e non per volere di Zeus o dell’analista.

(saggio apparso su Pomezia-Notizie, n. 9, settembre 2012)

PRESENTAZIONE MMCD PRESSO LIBRERIA ANTICA RAMPA – ASCOLTA L’INTERVISTA


Libreria Antica Rampa (via Carducci, 63 – Badia Polesine), intervista a cura di Marco Munaro.

ascolta qui:

intervista parte 1
intervista parte 2
intervista parte 3
intervista parte 4
intervista parte 5
intervista parte 6

Marco Munaro è nato a Castelmassa nel 1960, vive a Rovigo, dove insegna. Si è laureato a Bologna in lettere moderne nel 1984. Nel 2003 ha fondato “Il Ponte del Sale – Associazione per la Poesia”, cura le collane La porta delle lingue, Orbis pictus, Gli alberi capovolti, Il labirinto del mondo, Saggi in 32.

Ha pubblicato le raccolte poetiche: L’urlo (El levante por el Poniente Edizioni, Conegliano 1990), Cinque sassi (Edizioni della Cometa, Roma 1993), Il Rosario del Lido, in 5 Poeti del premio “Laura Nobile” Siena 1993 (Scheiwiller, Milano 1995), Il portico sonoro (Biblioteca Cominiana, Cittadella 1998), Vaso blu con narcisi (sculture e disegni di Silvia Carnevale Miino, I Quaderni del circolo degli Artisti, Faenza 2001), Ionio e altri mari (Il Ponte del Sale, Rovigo 2003), Sei e dieci (disegni di Cosimo Munaro, Centauro edizioni, Rovigo 2008), Visioni (incisione e cura di Simonetta Melani, Edizioni Due Lire, Santa Croce sull’Arno 2009), Nel corpo vivo dell’aria (Il Ponte del Sale, Rovigo 2009).

È presente nelle antologie: Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano (a cura di Franco Buffoni, Crocetti, Milano 1996), La Voce che ci parla. Antologia di poesia europea contemporanea (a cura di Alberto Cappi, Edizioni Bottazzi, Suzzara 2005), In un gorgo di fedeltà. Dialoghi con venti poeti italiani (a cura di Maurizio Casagrande, Fotografie di Arcangelo Piai, Il Ponte del Sale, Rovigo 2006, con una importante intervista), Poeti in terra veneta (a cura di Gianni Scalia, “In forma di parole”, A. XXVIII, N. 1, 2008); Calendario della poesia italiana 2009. 365 poesie classiche e contemporanee (a cura di Shafiz Naz, Alhambra Publisching, Berten, Belgium 2008); “Nelle case dei poeti”, a cura di Anna De Simone, in “Poesia. Mensile internazionale di cultura poetica”, A. XXIII, Maggio 2010, N. 249, pp. 44-57, alla p. 47. e in numerose riviste quali “il verri”, “Atelier”, “ClanDestino”, “La Battana”, “La clessidra”, “Italian Poetry Review”; “Testo a fronte”.

Ha tradotto: Raymond Queneau (in Poeti surrealisti, a cura di Pasquale Di Palmo, Stampa Alternativa, Viterbo 2004).

Ha curato tutte le poesie di Bino Rebellato, In nessun posto e da per tutto. Poesie 1929 – 2004 e 20 disegni dell’Autore, (Biblioteca Cominiana, Vigonza 2005) ed una originale galleria di ritratti: Il lampo della bocca e altre figurate parole tra poeti italiani del Novecento (con G. M.Tregiardini, MUP Editore, Parma 2005). Per il Ponte del Sale: La bella scola. La Comedia di Dante letta dai poeti e illustrata (2003 – 2011, tuttora in corso), Da Rimbaud a Rimbaud (2004) e Virgilio, Il canto d’api. Georgiche Libro quarto, con G. M. Tregiardini (2012). E’ direttore artistico della rassegna Verso il solstizio d’estate. Feste di Poesia, Musica e Arti, che ogni anno dal 2007 tocca varie località del Polesine.

Tra gli studi apparsi sulla sua opera, si segnalano: Luciano Caniato, Il Genio della lampada (Considerazioni su L’urlo di Marco Munaro e un tentativo di interpretazione), in Il potere l’urlo l’erta strada. Considerazioni di e su Luciano Caniato Marco Munaro Luciano Cecchinel, con una piccola antologia, Litografia Battivelli, Conegliano 1994, pp. 29-39. Andrea Zanzotto, “Nota introduttiva”, in Marco Munaro, il portico sonoro, con una nota di Andrea Zanzotto, Biblioteca cominiana, [Cittadella] 1998. Nico Naldini, Elogio di un giovane cantore di favole scritto con l’umiltà di un grande poeta, in “il mattino di Padova”, 25 marzo 1999.Alberto Cappi, Prefazione a: Marco Munaro, Vaso blu con narcisi, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2001, pp.27-28. Andrea Zanzotto, Introduzione a: Marco Munaro, Vaso blu con narcisi, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza 2001, pp. 33-34. Marco Merlin, Marco Munaro, “Vaso blu con narcisi”, in “Atelier”, N. 28, A. VII – Dicembre 2002, pp. 104-109 (ora in Idem, Poeti nel limbo. Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione, Interlinea, Novara 2005, pp. 297-306). Sebastiano Aglieco, La lingua ri/trovata. Il portico sonoro di Marco Munaro e le le souliers blessés, in “hebenon”, A. X. Terza serie N. 4, 2005, pp. 130-137 (ora in: Id., Radici delle isole. I libri in forma di racconto, La vita felice, Milano 2009, pp. 137-145). Maurizio Casagrande, Un imperscrutabile groviglio di nodi? Per una lettura dell’ultimo Munaro, in “La clessidra”, 2/2005, pp. 91-97. Anna De Simone, Un usignolo di fiume cantava, in “Caffè Michelangiolo”, A. XIV, n. 1 Gennaio-Aprile 2009, pp. 69-70. Sergio Garbato, Versi vecchi e nuovi di Marco Munaro, In “Il resto del Carlino, Domenica 21 giugno 2009, p. 13. Pasquale Di Palmo, in “”La Mosca di Milano”, 21, dicembre 2009. Matteo Giancotti, Marco Munaro i colori tenui del Polesine, in “Corriere del Veneto”, giovedì 31 Dicembre 2009, p. 12.